Strana società, quella dei
nostri giorni. E per “società” intendo quel complesso di regole che scandisce
la vita dei popoli e delle nazioni. Strana società – dicevo – è la nostra, che
vede gli Stati, ricchi e poveri, incapaci di provvedere con mezzi propri anche
alle più elementari esigenze dei propri cittadini. Ogni cosa
(dall’alimentazione alla sicurezza, dalla sanità all’edilizia pubblica, dai
trasporti all’istruzione, dalla tutela ambientale alla difesa militare) ha i
relativi costi; e questi costi possono essere affrontati, oltre che con
l’imposizione fiscale, solamente con denaro che gli Stati non possono
creare, ma che devono necessariamente farsi prestare dalle banche private.
Tutti gli Stati, sostanzialmente, anche quelli che hanno l’illusione di avere
ancora una propria “sovranità monetaria”. Prendete gli Stati Uniti d’America –
per esempio – il cui governo ha, proprio in queste settimane, immesso sul
mercato interno una gran quantità di danaro “fresco”. Ebbene, quel denaro non
lo ha stampato il governo degli Stati Uniti, ma la FED, la Federal Reserve, cioè
la banca “centrale” che lo ha poi prestato al governo. Malgrado la ambigua
denominazione di “centrale”, infatti, la Federal Reserve è una banca privata,
posseduta da un azionariato composto da banche private americane e straniere.
Per l’esattezza (dati del 1992): le americane Goldman Sachs, Kuhln Loeb,Lehman Broters, Chase Manhattam,
l’inglese Rotschild, la
tedesca Warburg, la
franceseLazard, ed
una misteriosa – per me – Banca Israel Moses Seif con sede a Roma.(1)
Certo, i popoli europei avvertono in modo particolare il
problema, perché hanno perduto la sovranità politica (non soltanto la
monetaria) a beneficio di una struttura sovranazionale quale è l’Unione
Europea. Ma gli altri popoli del mondo non stanno messi molto meglio, perché
tutti o quasi hanno rinunziato al diritto-dovere di creare il proprio denaro,
delegandolo a banche private, pudicamente indicate come “centrali”. Così
facendo, gli Stati non hanno solamente regalato a pochissimi soggetti privati
la possibilità di arricchirsi a dismisura sulla pelle dei popoli, ma – cosa
forse più grave – si sono consegnati anima e corpo alla finanza internazionale,
accettando di farsi dettare da questa le regole della vita sociale interna,
oltre che le linee della propria politica estera. Pena, la destabilizzazione
delle proprie economie nazionali. Se oggi la Russia di Putin – per esempio –
disobbedisce ai voleri dei poteri forti, i “mercati” decretano la perdita di
valore del rublo, con ciò provocando anche una crisi economico-sociale interna
al paese. Se, a suo tempo, l’Italia di Berlusconi – per fare un altro esempio –
comprava petrolio dalla Russia e dalla Libia, ecco che i “mercati” – sempre
loro – determinavano una crescita anomala del famigerato spread, con ciò incidendo
pesantemente sui nostri equilibri sociali.
Ma – mi si obietterà – non è stato sempre così? Nossignore, non
sempre e, comunque, non in maniera così totale e asfissiante. La guerra delle
banche (e mi riferisco ovviamente alle grandi banche “d’affari”, non alle
normali banche commerciali) per impossessarsi del potere politico dura da
secoli, con vicende alterne. Si pensi che la capostipite di tutte le banche
“centrali”, la Banca d’Inghilterra, è in attività sin dal 1694: da sempre in
mani private, nel 1946 venne stranamente nazionalizzata, per essere poi
ri-privatizzata nel 1997, a sèguito di una riforma invocata a gran voce dal
mondo della finanza. Lo stesso tipo di riforma che nel 1993 fu attuata in
Italia, privatizzando la Banca d’Italia che il regime fascista aveva
nazionalizzato nel 1936.
Eppure, stranamente, nessuno sembra scandalizzarsi per
l’enormità di questa aberrazione. Pensate: gli Stati rinunziano al potere di
creare denaro, e tale potere attribuiscono a dei soggetti privati. E non solo.
Ma – cosa ancora più grave – lasciano decidere a quei privati quali debbano
essere le direttrici della politica economica e sociale: se si debba assumere o
licenziare, aumentare o diminuire la pressione fiscale, se incentivare la spesa
pubblica o gli investimenti, se fare o non fare questa o quell’altra riforma. E
ancòra, sommando obbrobrio ad obbrobrio, per finanziare le proprie spese
istituzionali gli Stati si fanno sovente prestare il denaro occorrente dal
sistema bancario privato (banche centrali o banche d’affari, non fa molta
differenza), ed a quel sistema finanziario pagano cospicui interessi,
sottraendo tali somme alle necessità del governo. Dopo di che, naturalmente,
gli Stati diventano ostaggio del “debito pubblico” contratto con la finanza
speculativa. Non solo l’Italia, naturalmente. Se il nostro debito pubblico è
pari a circa il 120% del PIL, quello della media europea è più o meno dell’85%,
quello degli Stati Uniti del 105%, quello del Giappone addirittura del 210%.
E siamo soltanto all’inizio di questa serie di paradossi. Perché
il sistema finanziario dal quale gli Stati attingono il denaro in prestito è
drogato – se così posso dire – dalla presenza di una grande quantità di titoli
derivati, cioè – sostanzialmente – di denaro virtuale, che non esiste: carta
straccia creata dal nulla, senza che il sistema finanziario detenga un
controvalore reale. Una volta, gli Stati potevano stampare moneta solamente in
quantità corrispondente (o comunque proporzionale) alla riserva aurea
posseduta. Poi, alla fine della seconda guerra mondiale, venne creato un
sistema economico globale che si basava sul primato del dollaro (unica valuta
ammessa per il commercio delle materie prime) e sulla sua convertibilità in
oro. Poi, infine, nel 1971 gli USA decretarono (e gli Stati vassalli
disciplinatamente accettarono) la fine della convertibilità delle altra valute
in dollari e della convertibilità del dollaro in oro. Allora, quando le folli
spese militari avevano assottigliato la riserva aurea di Fort Knox, gli Stati
Uniti pensavano bene di far pagare al mondo intero i loro guai economici, e
quindi abolivano, insieme al sistema dei cambi fissi, anche l’ancoraggio delle
monete a quella misura di ricchezza reale che è l’oro. Da quel momento,
teoricamente, ognuno poteva stampare moneta a volontà, sol che riuscisse a
mantenere un rapporto accettabile nella “fluttuazione dei cambi”.
Chiedo scusa per questa lunga digressione, necessaria tuttavia
per comprendere che – dal 1971 in poi – per “fabbricare” denaro non è più
necessario detenere un corrispettivo reale, cioè una riserva di oro o di altri
metalli preziosi. E, tuttavia, gli Stati non hanno mai abusato oltre una certa
misura della possibilità di creare moneta, preoccupati di non alterare gli
equilibri della fluttuazione.
Non così la finanza speculativa, che – soprattutto dall’inizio
degli anni ’90 – ha cominciato a battere, di fatto, una propria moneta: non una
moneta convenzionale, naturalmente, ma quella che gli esperti chiamano “finanza
derivata” e che si sostanzia nella emissione di titoli privi di reale
consistenza.
Che
cosa è un “titolo derivato”? È una banconota virtuale emessa da un soggetto
finanziario privato ed il cui valore non è garantito da alcun bene reale, ma
“derivato” dal valore di mercato di uno strumento finanziario “sottostante”
(azioni, obbligazioni, eccetera), o anche – cito da Wikipedia – «basato sulle più diverse
variabili, perfino sulla quantità di neve caduta in una determinata zona».(2) Si tratta – in ultima analisi – di
scommesse di vario genere, che un soggetto privato trasforma in “titoli”,
immessi sul mercato e commerciati come se fossero emessi a fronte di una
ricchezza reale, tangibile.
Ma
l’aspetto più grave è la quantità di questo “denaro virtuale” gettato sul
mercato. Nel 2010, a fronte di un PIL mondiale annuo di circa 70.000 miliardi
di dollari – apprendo sempre da Wikipedia – il volume della finanza derivata
era di 670.000 miliardi di dollari.(3) La qualcosa significa – mi permetto di
chiosare – che il denaro virtuale in giro per il mondo è dieci volte il denaro
vero che costituisce il prodotto interno lordo generato in un anno
dall’economia reale dell’intero globo terrestre.
E in Italia – per banalizzare – non possiamo creare il denaro
necessario a pagare le pensioni (e dobbiamo farcelo prestare), mentre ad un
pugno di affaristi internazionali viene consentito di creare denaro virtuale
per scommettere sulle nevicate del Massachusetts.
Siamo alla follìa. O, forse, non è follìa, ma il frutto di un
lucido disegno per distruggere le nazioni e per sottrarre ai popoli le loro
ricchezze reali. A proposito di ricchezze reali: l’Italia possiede la terza
riserva aurea mondiale, dopo quelle degli Stati Uniti e della Germania. Volete
scommettere che, quanto prima, ci chiederanno di dare quell’oro a garanzia del
nostro “debito pubblico”?
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