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mercoledì 11 marzo 2015

Dal sesso al genere: la parabola dell’omologazione


L'educazione sessuale dei più giovani viene data in appalto alle associazioni Lgbt contro il consenso di docenti e genitori. Nel silenzio dei nostri Media, le istituzioni si ostinano a chiamare l'ideologia gender una banale "educazione alle differenze". Cosa si nasconde sotto il mantra politicamente corretto della lotta all'omofobia?


Dopo anni di rapporti confidenziali tra istituzioni scolastiche e associazioni Lgbt, con il ddl 1680 – di cui la prima firmataria è Valeria Fedeli del Partito democratico – l’educazione di genere sarà educazione di Stato. L’istruzione in materia di famiglia e sessualità è data in appalto ad entità extrascolastiche che –  in barba all’art. 30 della Costituzione – intercedono su materiali didattici, corsi di formazione per docenti e alunni, comunicati per i genitori, modifiche dei programmi scolastici e organizzazioni di eventi. Vendutoci come una lotta all’omofobia, il genderismo si adopera per destrutturare le identità sessuali.
Cosa prevede questo tipo di avviamento? La teoria gender, che a detta delle istituzioni non esiste – ufficialmente è un’educazione alla diversità (sic!) – si basa sulla distinzione tra sesso e genere. Se il sesso è considerato un inutile corredo genetico, un semplice complesso di caratteri biologici che creano la distinzione maschio/femmina – e a cui la Tecnica può porre rimedio – il genere è invece quella compagine di fattori culturali e convenzionali che fasciano storicamente il bagaglio biologico dando vita ai diversi comportamenti, ruoli e status associati all’uomo o alla donna. Secondo questa separazione la produzione di gameti maschili non ha un legame naturale con l’essere e il sentirsi uomo ed assolvere alle pratiche convenzionali che ne derivano. I gender studies sostengono l’idea che la percezione soggettiva della propria sessualità non sia un’estensione del fattore biologico. Il genere è un fatto culturale. Nascere maschi ed adempiere alle pratiche convenzionali associate a questo sesso in passato (il lavoro fisico, la caccia, l’aggressività, la virilità) viene considerato dagli ideologi in questione, uno stereotipo di genere. Sono detti ugualmente stereotipi: il semplice fatto che un bambino giochi con dei soldatini piuttosto che con delle bambole; che una donna porti una gonna anziché dei pantaloni e che sia lei ad occuparsi dei figli e del focolare domestico al posto del padre.
Secondo la lobby Lgbt e i sostenitori del ddl 1680, l’identità di genere si forma durante il periodo infantile, attraverso agenti socio-culturali quali la famiglia e la scuola, ed è perciò proprio in quell’arco di tempo che bisogna intervenire per superare i ruoli e gli stereotipi. In Francia, per esempio, Paese all’avanguardia in termini di “diritti”, nell’asilo Nido di Saint-Ouen, acclamato come faro del progresso dai media nazionali, si è istituita la prima struttura atta a scardinare questi cliché. Sotto lo sguardo staliniano dei pedagoghi vediamo bambini invitati a giocare con le bambole e bambine impegnate nel bricolage. In diversi asili gli insegnanti affiliati ai sindacati vicini alla lobby Lgbt si sono armati della letteratura transgender per patrocinare i propri corsi: “Papà porta una gonna”, “Tango ha due papà”, “Jean ha due mamme”. Anche in Italia sono già state introdotte le pubblicazioni di favole con lo scopo di decostruire i preconcetti relativi ai sessi e sempre in Francia i manuali di biologia Hachette in vigore a partire da settembre 2014 definiscono l’identità sessuale, come “la percezione soggettiva che si ha del proprio sesso”. Un simile approccio va ben oltre il riconoscimento della parità dei sessi o della lotta all’omofobia – omofobia di cui l’Oscad non rileva nessuna minaccia in Italia – ma interviene a fondare una nuova concezione antropologica. Un passaggio d’epoca che segna la fine del ruolo della natura per dare all’individuo la possibilità di determinarsi secondo le sue inclinazioni soggettive. Il corpo a questo punto cessa di rappresentare l’incarnazione carnale dell’Io per diventare un oggetto di cui l’Io sarebbe il proprietario e il soggetto. Già lo slogan femminista “il corpo è mio, decido io” implica questa dualità tra corpo e proprietario, una separazione tra le due istanze in cui il soggetto prevarica sulla determinazione biologica che può modificare. Accettata filosoficamente ed eticamente questa separazione, tra io e corpo, tra genere e sesso, saranno i primi a decretare le attitudini dei secondi. Lo sconvolgimento dell’ordine immanente da parte dell’ideologia gender si accorda perfettamente al timbro della postmoderna ambizione di affrancarsi da qualsiasi tipo di limite e di predeterminazione in nome della individualistica smania di libera disposizione di sé. Ma dov’è l’errore? La libertà risiede davvero in un anti-naturalismo sfrenato? Il dato biologico non gioca davvero nessun ruolo? Il processo di civilizzazione è un’evasione dal contesto naturale?
A dire di diversi studiosi tra cui il viennese Otto Weininger, il carattere – o genere - ha rapporto continuativo con il sesso. Lo psicologico e il fisiologico sono legati l’un l’altro, anche se Weininger ammette che non può esistere il “maschio assoluto” e entrambi i sessi hanno una percentuale di caratteri del sesso opposto. Di conseguenza la visione del mondo, il comportamento, le prerogative e l’immaginario associati comunemente all’uomo o alla donna, non sono solo stereotipi ma estensioni culturali del dato naturale. L’aggressività insita nei caratteri genetici maschili, porta inevitabilmente il bambino a picchiarsi con i suoi coetanei, mentre la sensibilità femminile è naturalmente propensa a prendersi cura degli altri. Dice Alain De Benoist: “a tutte le età e durante qualsiasi fase dello sviluppo, le ragazze si mostrano anche più sensibili dei ragazzi nei confronti dei loro stati emotivi e quelli degli altri (il sesso dimostra così di essere un eccellente fattore predittivo dei sentimenti di empatia). Dalla tenera età, i ragazzi ricorrono a strategie di tipo fisico, mentre le ragazze ricorrono a strategie verbali. Le ragazze sono più loquaci, i ragazzi più aggressivi”. Fino a che punto è legittimo non dare dei riferimenti ad un bambino? E soprattutto annullare le differenze in nome di un ibrido modello unisex, valido per entrambi i sessi, non equivale a dire che nessuno dei due sessi potrà trovare un compimento soddisfacente? Le differenze tra l’uomo e la donna non sono originate da fattori puramente culturali, e anzi questi fattori sono il diretto risultato di talune necessità naturali. Come sostiene Massimo Fini nel suo Dizionario erotico, “attraverso i cicli lunari, le mestruazioni, la fecondazione, la gestazione, la placenta, il parto, le mammelle, il latte e tutti i complessi processi fisiologici che si svolgono all’interno del suo corpo, la donna è legata alla natura molto più intimamente di quanto lo sia l’uomo” e ovviamente da qui si creano esigenze diverse a cui la cultura provvede dando ruoli, compiti, status diversi.
In definitiva, più che tendere verso un reale miglioramento delle condizioni di vita individuali e collettive, l’ideologia gender si impegna ad eliminare le differenze e ad uniformare i caratteri. Perché la differenza è vissuta irrimediabilmente come una gerarchia, e il mondo dell’identico per capitalizzare al meglio ogni forma di espressione necessita, a dire di Alain De Benoist, di “trasformare l’esistenza quotidiana in un immenso mercato, dove desideri e bisogni si somigliano”. Questo smantellamento si attua mediante la straordinaria retorica del “diritto” e, sostiene Caroline de Haas – sindacalista del Ps francese – “la decostruzione dei ruoli sociali che attribuiamo a ciascuno dei sessi è determinante per costruire una società di uguaglianza reale”. L’eterosessualità sembra, così posta, un’ideologia culturale, tanto che Eric Fassin – professore di scienze politiche all’università Paris VIII – vorrebbe poter “pensare un mondo in cui l’eterosessualità non sarà più normale” e parlare “in termini di genere – secondo Marc Guillaume e Marie Perini – manifesta il rifiuto di essere assegnati a risiedere in un’identità”.
Si rischia di far sparire l’equilibrio che deriva dall’essere donna e dall’essere uomo, che implica l’unione nella diversità, che si scopre nel diverso approccio alla realtà, alla vita, nella diversa sensibilità nei confronti del mondo. Dalla confusione generalizzata che si ottiene, dalla perdita dei caratteri e delle differenze tra i sessi (e differenza non sta per gerarchia) su cui si fonda la storia dell’umanità ne conseguirà una società piatta e indifferenziata, deprivata della famiglia intesa come ultimo argine al definitivo collasso delle relazioni umane comunitarie e come agente garante di un’identità che si eredità e si tramanda. Diceva Pierre-Jospeh Proudhon: “Uomo e donna sono solo equivalenti (non uguali, dunque), ognuno avendo in predominanza una prerogativa speciale: l’uomo la forza, la donna la bellezza. In questo caso l’equilibrio dei loro diritti e doveri rispettivi deve essere fatto in una maniera diversa, ma in una maniera per cui tra i due sessi vi sia eguaglianza di benessere e onore”

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